IPO Snapchat: tutti i dati di un successo (ma quanto durerà?)
L’IPO Snapchat? È stato sicuramente un successo, visto e considerato che il debutto di Snap (la società cui è riconducibile l’app di messaggistica che si “autodistrugge”) è stato più che positivo, con le quotazioni del titolo che sono salite del 60% in soli due giorni, spinte in propulsione dalle alle congetture relative all’aumento dei ricavi pubblicitari, in attesa che magari il bilancio possa presentare anche degli utili (guai ad attenderseli nel breve termine, come peraltro precisato nel prospetto di quotazione).
Ma cos’è un IPO ? Il termine si traduce in offerta pubblica iniziale, e costituisce lo strumento finanziario attraverso il quale, il trader può investire in borsa sulle azioni di una società privata che sono state rese pubbliche per la prima volta, su mercato regolamentato.
Ma che cosa è successo negli ultimi giorni? E che cosa possiamo ora attenderci? Cerchiamo di spiegarlo con chiarezza e semplicità!
Come è andata l’IPO di Snap?
Bene, molto bene. Nel suo primo giorno di quotazione la società Snap, che controlla l’applicazione Snapchat, ha guadagnato il 44%, e nel suo secondo giorno ha proseguito – pur con minore impulso – la sua scalata. I risultati così ottenuti in termini di capitalizzazione di mercato sono stati superiori a quelli previsti dagli analisti, conducendo l’azione Snap a compiere un poderoso balzo in avanti rispetto al prezzo iniziale di quotazione, pari a 17 dollari.
Per Wall Street, quanto avvenuto rappresenta una delle IPO di maggiore successo nel corso degli ultimi anni. Un successo ancora più rilevante se si pensa che Snap fino a cinque anni fa non esisteva, e che ora ha un valore di 34 miliardi di dollari, oltre alla disponibilità di nuove risorse economiche che potrà utilizzare per una nuova espansione.
Chi c’è dietro Snap?
Dietro Snap ci sono Evan Spiegel e Bobby Murphy. Nemmeno 30enni, i due co-fondatori di Snap sono tra i neo-miliardari più in vista del momento e, sicuramente, sono anche coloro che hanno sicuramente “vinto” dalla IPO: i loro pacchetti azionari valgono infatti oltre 5 miliardi di dollari ciascuno e, comunque, riusciranno ancora a mantenere il controllo societario grazie al fatto che alcuni pacchetti azionari sono stati distribuiti senza diritto di voto. Insomma, la maggioranza degli analisti deterrà il capitale sociale di Snap ma non riuscirà a condizionare le scelte dei due co-fondatori. E attenzione, poichè questo è un dato molto importante per il prossimo futuro: se le cose dovessero andare male, il malumore degli investitori per una simile distribuzione di poteri (per ora abbastanza sopito, e annacquato dagli ottimi risultati ottenuti da Snap) potrebbe insorgere in maniera molto fastidiosa…
Cosa accadrà in futuro?
Difficile dirlo, a cominciare dai prossimi giorni. È comunque molto probabile che l’euforia Snap si sgonfi rapidamente così come è arrivata, visto e considerato che la società deve ancora dimostrare di poter effettivamente generare ricavi (e soprattutto utili), e reggere ad armi pari la concorrenza di competitors non certo rinunciatari (Facebook & co.). A quanto sopra si aggiungano le riflessioni che trovate nel prossimo paragrafo, e che non anticipiamo per completezza di lettura.
Quanto sopra, peraltro, nel breve termine. Nel medio lungo termine bisognerà invece toccare con mano in che modo Snap riuscirà a superare lo scoglio principale: tradurre in utile il successo di utenti. Solamente nel corso del 2016 la società maturò perdite per 515 milioni di dollari, mentre nel 2015 le perdite ammontarono a 373 milioni di dollari. Dal 2011 (anno in cui ha iniziato la sua attività) a oggi, la società non ha mai chiuso un anno in attivo, e non è ancora chiaro (prospetto di quotazione alla mano) quando effettivamente riuscirà a produrne.
Guai, in proposito, a pensare che sia semplicemente “normale”. Se infatti è risaputo che le startup nella loro fase di sviluppo sono perennemente in perdita, orientate per lo più a far crescere i numeri commerciali (in questo caso, il numero degli utenti) è anche vero che Snap ha dalla sua un altro problema: la scarsa crescita dei suoi ricavi. Nel 2016 la società ha raggiunto un fatturato di poco più di 400 milioni di dollari, ovvero 84 volte meno la valutazione di 34 miliardi di dollari che deriva dal suo primo giorno di Borsa.
Si tratta di un rapporto sul quale val la pena scommettere o no? Non lo sappiamo. Ma sappiamo sicuramente che il rapporto tra il prezzo di mercato delle azioni e i ricavi di vendita normalmente non può essere così elevato: per non spostarci troppo dalla Silicon Valley, sia sufficiente pensare al multiplo di 3 in capo a Amazon, a quello pari a 6 di Google, a quello pari a 14 di Facebook. Naturalmente, stiamo mettendo a confronto aziende molto mature e una (quasi) neonata, ma i numeri segnalano comunque che dalle parti di Snap si scommette parecchio, con poche basi concrete.
Soffermandoci invece sull’aspetto concorrenziale, sopra abbiamo fatto un rapido cenno a Facebook. E proprio dalla società di Mark Zuckerberg Snap dovrebbe guardarsi bene le spalle: Zuckerberg cercò di acquistare la società nel 2013 per un valore di 3 miliardi di dollari, ma l’offerta fu rifiutata da Spiegel, pare generando molti malumori in casa Facebook. Dall’epoca, la società cui fa capo il social network più famoso del mondo ha cercato di conquistare la nicchia di Snapchat con una serie di applicazioni che al suo interno possono avere funzionalità molto simili a quelle di Snapchat, come Instagram, Messenger, WhatsApp e la stessa Facebook (che di fatti ha lanciato le sue Storie poco prima della IPO).
Insomma, Snapchat non offre un vantaggio competitivo così forte da potersi ritenere al sicuro da effetti sostitutivi. E tutto questo non fa che complicare uno scenario dal quale – forse – è bene mantenersi sufficientemente alla larga o, comunque, un contesto da guardare con un minimo di circospezione in più rispetto all’euforia di cui è stata protagonista Snap e i suoi fortunati co-fondatori.
Perchè l’IPO di Snap è stata un successo?
Archiviato quanto accaduto e accennato quel che a nostro giudizio potrebbe accadere, val la pena di vestire ancora una volta i panni degli analisti e domandarsi quali sono le ragioni che hanno condotto la società a un simile successo.
Il primo punto di riflessione è certamente legato al fatto che Wall Street attendeva da tempo una nuova IPO da parte di una società tecnologica, e quella di Snap era la prima offerta pubblica iniziale di rilievo dopo quella di Twitter, oramai risalente a tre anni fa. In questi triennio, complice anche un contesto non favorevole, molte società della Silicon Valley hanno scelto strade alternative, evitando il ricorso al mercato azionario e, di contro, seguendo strade di crescita interne. E se state pensando a Dropbox o Airbnb, fate bene: sono proprio due delle “prede” che gli investitori vorrebbero presto vedere protagoniste di una IPO, come avvenuto con Snap.
Ad ogni modo, non è certamente sufficiente riflettere sul favorevole clima di attesa di Wall Street per poter giustificare un simile successo. Molto del merito è infatti da ricercarsi nella stessa Snap, società che è riuscita a mantenere degli interessati livelli di crescita negli ultimi anni, sia in termini di fatturato che di utenti. Snap macina infatti 150 milioni di utenti attivi ogni giorno, la grande maggioranza dei quali tra i 18 e i 34 anni, una fascia di età anagrafica particolarmente ambita dai pubblicitari. Un elemento che – almeno per il momento – fa dimenticare il fatto che l’azienda sia ancora in perdita, e probabilmente lo sarà ancora per qualche tempo.
Il terzo motivo che può facilmente spiegare il successo di Snap è legato a una questione meramente tecnica: su 200 milioni di azioni finite sul mercato, 120 milioni erano già “prenotate” da 25 diversi gruppi di investimento e altre 50 milioni di azioni erano state assegnate a un altro gruppo di investitori con il vincolo di trattenerli almeno un anno. Solamente i restanti 30 milioni di azioni erano dunque effettivamente liberi per lo scambio sul mercato: troppo poco per poter soddisfare la domanda degli investitori “comuni”, che hanno dovuto spartirsi una quota fortemente minoritaria di titoli (il 15%), alimentando il prezzo.
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