La crisi del Dollar Standard si ripercuote negativamente sul F.M.I., poiché i problemi sollevati sono tali da compromettere l’accordo dei paesi membri. Questo organismo, infatti, contabilizza l’oro a 42,22 dollari l’oncia, mentre sul mercato libero esso raggiunge quotazioni ben più alte. Alcuni membri propongono perciò di lasciarne solo una parte in dotazione al Fondo: per la rimanente, si propone di venderne parte sul mercato libero (lucrarne la « differenza » e cederla ai paesi in via di sviluppo), e di distribuire l’altra parte ai paesi sottoscrittori in proporzione delle quote conferite.
Il problema della redistribuzione parrebbe semplice; ma, nel tempo, si è verificato che i paesi ricchi (e cioè quelli produttori di petrolio) detengono quote che non rispecchiano la loro attuale capacità monetaria; mentre, d’altro canto, quote di rilievo sono attribuite a paesi che, ormai, contano in seno al Fondo poche riserve (ad esempio, Italia e Gran Bretagna). Negativamente la crisi del dollar standard pesa sul futuro dei paesi in via di sviluppo che, mai interpellati nelle trattative monetarie ad alto livello, subiscono le decisioni degli altri. Dei riflessi della crisi del dollar standard sulla C.E.E. diremo nel paragrafo che segue.
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