Le leghe operaie e la programmazione

Le leghe operaie e la programmazioneLeghe operaie e programmazione. L’interesse degli economisti per la programmazione è nell’ultimo quindicennio assai elevato. Sembra infatti che, attraverso questa via, ci si possa avviare a riforme di imprevedibile portata per il funzionamento dei moderni sistemi economici, posto che le economie di mercato e quelle socialiste si vadano avvicinando, come taluno, ad esempio il Tinmergen, afferma.

L’interesse dei partiti politici per la programmazione non è meno vivo. È vero che essi non annettono a quella parola, nel quadro della loro particolare subcultura, lo stesso significato.

A vero altresí che si servono di quella parola-manto per suggerire ai votanti riforme anche disparate; talvolta contraddittorie. Ma non perciò i partiti politici (nella cerchia dei loro « leaders ») si trovano imbarazzati.

I partiti politici non si trovano in imbarazzo se non in seguito ad eventi concreti, preparati da lunga lena: elezioni, fatti di governo, congressi, discussioni dei segretariati e via dicendo. Il contesto dei loro discorsi, anche impegnativi, è pur sempre sorvegliato e duttile.

Ben diversa e talvolta persino drammatica è la posizione dei sindacati o leghe operaie, per quanto riguarda la programmazione. Riferendo quella parola ad un complesso assai ampio di misure di azione economica, le leghe operaie non possono ad essa disinteressarsi, nel periodo in cui il programma è redatto.

Vedremo a suo luogo che si tratta di un processo lungo e faticoso, che si estende per molti mesi. Non occuparsi del programma, significherebbe per quelle leghe operaie trascurare le loro istanze riformiste. E se un sindacato lo facesse, gli altri concorrenti lo sopravanzerebbero avvantaggiandosi.

Inoltre, redatta la programmazione, essa può avere ripercussioni assai ampie sulle possibilità del sindacato di negoziare, con piena indipendenza, programmi di lavoro.

Per esempio, se la programmazione dovesse mutare il sistema economico, da un’economia di mercato ad un‘economia socialista, le leghe operaie sarebbero poste, notoriamente, in posizione di minor libertà contrattuale, e potrebbero addirittura veder mutati radicalmente i loro compiti.

Ma anche restando l’economia programmata a sistema di mercato (economia mista), le leghe operaie potrebbero essere chiamate (o almeno invitate) a partecipare ad una determinata « politica dei redditi » in appoggio a maggiori investimenti; a più elevato sviluppo; a uno sviluppo più equilibrato, infine, a maggiori consumi di carattere sociale. I sindacati allora sarebbero posti, potenzialmente, in situazioni imbarazzanti: sacrificare ad esempio istanze rivendicative a vantaggio di istanze riformistiche.

Sollecitare la drastica formazione di risparmio privato. E le loro scelte potrebbero ulteriormente rendersi ardue, nell’ipotesi (che in Italia, come vedremo, dopo il 1962, si è puntualmente verificata) che dovessero operare in un certo sistema economico due grandi centrali sindacali operaie concorrenti: la prima opposta alla programmazione, la seconda favorevole.

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